Apidge. Parliamo di “diritto” […]

CHE COS’È IL DIRITTO E COME SI STUDIA

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Che cos’è il diritto, qual è la sua definizione, è uno dei problemi essenziali che si pone dinanzi ad ogni giurista, il quale molte volte abilmente lo schiva facendolo rientrare nel lavoro del filosofo.

Abstract

Definire vuol dire delimitare. E delimitare il concetto di diritto, stabilendone confini certi, è difficile o, forse, addirittura impossibile. Infatti, il diritto non è solo forma, immutabile ed universale, ma anche contenuto, mutabile ed adattabile ai cambiamenti sociali. Ne deriva un concetto di diritto indeterminato, caratterizzato da confini incerti, ma elastici ed idonei a cogliere e disciplinare l’evoluzione sociale.

La certezza (o meno) dipende dalla copertura della norma giuridica; quest’ultima, infatti, altro non fa che assegnare forza giuridica ad una norma della realtà estranea all’ordinamento giuridico. La norma della realtà può essere certa, cosicché anche la norma giuridica assume valore puramente descrittivo, oppure può essere indeterminata ed avere natura assiologica, richiedendo in tal caso non solo una integrazione da parte dell’interprete, ma una vera e propria sua partecipazione alla creazione della norma giuridica.

Ma c’è un fondamento universale proprio del diritto, il concetto di giustizia, il quale però, essendo socialmente determinato, assume significato diverso in ogni contesto sociale di rifermento. Il diritto deve essere giusto, ma cosa si intende per giusto?

Non si può definire una volta per tutte cosa sia giusto o no, ma ogni epoca storica ed ogni contesto sociale matura, o per convenzione o per rappresentazione sociale inconscia, un senso di giustizia che si pone di volta in volta quale fondamento del diritto.

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Nella Metafisica dei costumi Immanuel Kant affermava che era possibile porsi due domande riguardo al diritto, e cioè: “Was ist Rechtens?” e “Was ist Recht?”. Tradotto: “che cos’è diritto?” e “che cos’è il diritto?”. Mentre alla prima domanda il giurista risponde quasi quotidianamente nel momento in cui va alla ricerca della norma applicabile alla fattispecie concreta (“quid juris?”), alla seconda (“quid jus?”) non pone quasi mai attenzione e liquida la questione sostenendo che essa è materia da filosofi.

Tuttavia  Hart (riferendosi ad affermazioni del tipo “Ciò che i giudici decidono in relazione alle controversie costituisce… il diritto” e, ancora, “il diritto costituzionale è semplicemente moralità positiva”) ci dice: «Eppure queste affermazioni apparentemente paradossali non sono state fatte da visionari o da filosofi professionalmente dediti a dubitare delle più semplici verità di senso comune. Esse sono il risultato di lunghe meditazioni sul diritto fatte da uomini che erano anzitutto giuristi dediti per professione all’insegnamento o alla pratica del diritto» 

Perché dovrebbe essere materia da filosofi e non da giuristi? Quest’ultimo quindi studia, e lavora con, un  oggetto di cui non sa neppure cos’è?

Sarebbe assurda una conclusione del genere, come è assurda l’idea oggi prevalente, soprattutto tra i giuristi professionisti-tecnici, per cui il diritto coincida con la (e si esaurisca nella) Gazzetta Ufficiale.  Confondere il diritto con la legge è un’idea riduttiva. È vero che la legge è la principale fonte di produzione delle norme giuridiche, ma sarebbe necessario anche domandarsi: perché il legislatore dà vita a quella legge e non ad un’altra? perché ha statuito in quel modo e non in altro modo? qual è la fonte originaria? Per dirla con Kaufmann: «lo Stato non crea il diritto, lo Stato fa le leggi; e Stato e legge sono subordinati al diritto»

Che cos’è dunque il diritto e cosa gli dà origine? C’è qualcosa che precede la sua definizione,  fondandolo?

Una breve precisazione: si potrebbe obiettare, come è già stato fatto, che una cosa è definire il concetto di diritto altra è ricercarne lo scopo, il fondamento, l’origine e la causa che lo giustifica. In realtà, come si vedrà alla fine, la definizione di diritto coinvolge il fenomeno giuridico tutto intero richiedendo necessariamente di ricercarne anche quegli elementi che possono forse sembrare estranei ad un tentativo definitorio.

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Partiamo innanzitutto dalle cose certe. È certo che il diritto è connato all’uomo, non vi è infatti diritto dove non vi è l’uomo; le sue regole si originano dalle regole dell’uomo, dalle regole del comportamento umano. Il diritto disciplina i comportamenti tra gli uomini. Non può esistere diritto senza una società umana.

Così inteso, il diritto sembrerebbe delinearsi come scienza dello spirito o della cultura piuttosto che come scienza della natura o scienza sociale. Queste ultime due infatti indagano le leggi esterne all’uomo, ovvero quelle della natura o quelle della società; le scienze dello spirito o della cultura, cui il diritto apparterrebbe, partono da un oggetto interno, ovvero, nel caso del diritto, da un senso (un sentimento) di giustizia interno comunque formato che indica come dovrebbe essere regolata la convivenza umana. Ma, benché l’idea del diritto come scienza dello spirito sia affascinante, essa non sembra totalmente corretta, dato che lo stesso senso di giustizia su cui il diritto si fonda proviene dall’esterno, nascendo, infatti, non a priori nello spirito dell’uomo ma per mezzo di una relazione e di un confronto al di fuori di ognuno e con l’altro; sarebbe, quindi, più corretto inserirlo tra le scienze sociali, poiché esso è volto a regolare la convivenza umana sulla base di un senso di giusto che nasce esternamente all’uomo singolo, nell’incontro dell’uno con l’ altro, nel Da-sein, nell’esserci e non nell’essere.

Sulla base di ciò che è convenzionalmente reputato giusto per e tra gli uomini in una determinata epoca, il diritto regolerà il comportamento umano. Esso nasce quindi dalle concezioni di “giusto” e “ingiusto” (la parola “gius-to” deriva dal latino ius, appunto diritto). Se queste concezioni fossero universali, avremmo un diritto universale; ma se fossero temporali e locali, nel senso che esse cambiano nel tempo e nello spazio, avremmo un diritto limitato nel tempo e nello spazio. Ove, dunque, “giusto” fosse un concetto relativo, anche il diritto lo sarebbe; ove esso fosse assoluto, anche il diritto assumerebbe carattere di universalità.

Le concezioni “ideali” del diritto che lo fanno coincidere con elementi atemporali, quali la natura dell’uomo (giusnaturalismo) o la forma giuridica (giusformalismo), senza elementi reali (e quindi temporali), fanno sì che esso assuma un significato universale.

Per i giusnaturalisti il diritto è un fenomeno sostanziale che trae origine dalla natura dell’uomo; è il contenuto (i precetti dettati dalla natura umana) che gli dà universalità proprio perché la natura è comune a tutti gli uomini sia temporalmente che spazialmente (domanda: ma siamo in grado di dire cos’è la natura umana e cos’è giusto secondo natura? Risposta: l’uomo si interroga da secoli su questo problema, ma ottiene solo risposte tautologiche per mezzo di ragionamenti viziati da petizioni di principio, come si può vedere ad es. nell’espressione “i diritti dell’uomo sono quelli che spettano all’uomo in quanto uomo”; così, la “natura dell’uomo” da definire e dimostrare diviene invece la premessa della definizione!)

Per i giusformalisti (ad es. Kelsen) il diritto coincide con una forma (la forma giuridica è comune a tutti i diritti, quindi gli dà universalità); secondo i formalisti il diritto è tale perché si presenta in una data forma linguistica, a prescindere dai contenuti storici, teleologici, politici, sociologici, naturali o etici (per Kelsen ad es. le leggi razziali, pur se ingiuste, erano comunque diritto). Nell’ottica del giusformalista, dunque, il diritto coincide con il giudizio ipotetico, che si trova nella forma “se Tizio fa questo”, e nella relativa doverosa e coattiva conseguenza, “allora deve …”. Il giusformalista è un positivista, per lui esiste solo la  norma, il dover-essere (Sollen) e l’aspetto deontologico, eliminando tutto ciò che attiene all’essere (Sein) e all’aspetto ontologico. Inoltre, per il positivista il materiale di lavoro è solo la norma giuridica posta da un legislatore, e alla legge così posta (anche se immorale) il giudice è vincolato in modo assoluto. Per il formalista così inteso la norma diviene un dogma, l’unico oggetto del proprio interesse, non esistono in sostanza elementi extra-testuali da considerare

Contrariamente, invece, le concezioni “realistiche” ridanno al diritto ciò che il formalismo gli toglie, e cioè il contenuto (un contenuto reale, però, non ideale come quello dei giusnaturalisti). Questo può consistere nella volontà (sia intesa come consenso che come comando), o ancora nella storia (lo storicismo), nella realtà sociale (il sociologismo) o nello scopo (teleologismo). Secondo lo storicismo sono gli eventi del  passato che fanno nascere l’esigenza di creare norme nuove; per il sociologismo i nuovi bisogni sociali creano di volta in volta la necessità di essere regolamentati; per i teleologisti rileva “l’idea dello scopo” e dell’interesse quale causa genetica della norma.

apidge giustizia dirittoA seconda della teoria seguita varia la validità del diritto stesso. Per il positivista è valido il diritto creato sulla base di procedure codificate, poste anch’esse con atto del legislatore, distinguendo la validità dall’ efficacia. Per il realista, invece, la validità coincide con l’effettività, è valido solo il diritto che è effettivamente accettato e sentito come tale dal corpo sociale, e dunque da questo osservato e dai giudici  applicato; teoria riassumibile nelle affermazioni  più radicali secondo cui «Il diritto è una causa vinta!» e «Il dovere una causa persa!» (JEROME FRANCK); ciò, però, a tutto svantaggio della certezza del diritto.

Preme specificare il fatto che anche all’interno di ogni singola concezione del diritto esistono differenze concettuali, ma non è questa la sede per approfondirle. Qui si vuole solo mettere in luce il fatto che il diritto è un fenomeno complesso che non si deve esaurire solo nella sua forma o solo nel suo contenuto, ma occorre prendere in considerazione entrambi i piani, quello della forma e quello della sostanza.

Non siamo, infatti, neppure d’accordo con le contemporanee teorie che vedono nella forma un salvagente per il diritto dovuto al fatto che il nichilismo giuridico abbattendosi sui contenuti del diritto lo svuota. Secondo tale teoria, dato che le strutture di legittimazione del diritto quali la tradizione, la razionalità, la divinità non sono più in grado di assolvere il loro compito, allora ciò che rimane è l’arbitrarietà del diritto: il diritto crea se stesso sulla base di procedure formalizzate ed automatizzate che annullano qualsiasi tipo di contenuto giuridico (il diritto “si produce”). Si è perso tutto ciò che avrebbe potuto dare al diritto una oggettività ed assolutezza, il diritto non può considerarsi come portatore di un principio di verità e di giustizia assoluto e valido oggettivamente in ogni tempo e luogo; il contenuto diviene relativo e soggettivo. Ciò che rimane è solo la forma.

In realtà la teoria precedente ha un fondamento di verità, ma è nelle conclusioni che non ci trova d’accordo. Se è vero che il diritto è un fenomeno relativo e temporale, esso trova in ciò la sua caratteristica di assolutezza. È vero che il concetto di giusto (per il singolo uomo) potrebbe essere relativo anche all’interno di una stessa epoca (ad es. per un masochista contemporaneo l’art. 5 del codice civile che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo potrebbe essere norma massimamente ingiusta), ma per il diritto rileva il concetto di giusto dell’esserci e non quello dell’essere, e ciò implica, come vedremo, che esso diviene oggetto di un comune sentire in una data epoca e che quindi il diritto assume anch’esso un contenuto ed un fondamento, che però devono essere accertati giorno per giorno. «Non si tratta di trovare il fondamento assoluto – impresa sublime ma disperata – ma, di volta in volta, i vari fondamenti possibili» (cfr. N. BOBBIO, L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990 , 2° edizione, p. 16).

Proprio per dimostrare ciò, merita di essere qui menzionata la teoria della “posizione originaria” di Rawls. Secondo questo autore la giustizia (egli si riferisce principalmente a quella sociale) può nascere da un contratto, in cui i contraenti siano persone razionali ed autonome (in senso kantiano) che si pongono mentalmente in un ipotetico status pre-sociale, cioè in una posizione in cui ognuno di loro non sa quale posizione sociale ricoprirà (ad es. se ricco o povero, se sano o malato ecc.). Da questa posizione le norme del contratto che regoleranno la vita degli associati saranno molto probabilmente eque e giuste. In tal caso infatti le regole saranno rivolte, più che a dare di più a coloro che sono già avvantaggiati e privilegiati, a riparare la situazione di svantaggio in cui tutti i contraenti potrebbero venire a trovarsi una volta costituita la società. Il diritto avrebbe dunque una funzione riparatrice, nel senso di attuare la giustizia così intesa, eliminando le differenze “immeritate”, cioè che non dipendono dal merito, senza intaccare quelle meritate

giustizia apidge dirittoPiù affascinante per chi scrive sembra però essere la teoria delle episteme di FoucaultL’episteme può essere intesa come un sistema di regole e di griglie concettuali inconsce che permettono ai soggetti di una determinata epoca di comprendersi e capirsi. Essa non sarebbe dunque un insieme di categorie a priori nel senso kantiano, cioè universale e atemporale, ma temporale e storicamente determinato, un a priori storico, che è l’insieme di condizioni trascendentali della conoscenza, ma temporalmente determinate. Il passaggio da un’ episteme ad un’altra avviene in modo enigmatico ed inconscio. Il soggetto pensa e conosce in un determinato modo senza sapere perché, influenzato da quel determinato a priori storico. Anche la giustizia, e il senso del giusto, possono essere degli a priori storici. Senza sapere il perché, si ha un sentimento di giustizia più o meno comune, un’idea del diritto legata ad un’idea del giusto, in base al quale ci si riesce a capire e a concordare ciò che è giusto o ingiusto in una data epoca storica. Ci sono momenti di transizione, in cui l’episteme si modifica ed assume un significato diverso, ma tali mutazioni avvengono senza una logica interna ed in modo inconscio.

Tirando le somme di quello che è stato detto finora possiamo concludere dicendo che il diritto è un fenomeno temporale e relativo, e che queste due sono le sue caratteristiche che gli conferiscono  assolutezza, non nel senso che esso è assoluto e astorico, ma nel senso che le caratteristiche comuni a tutti i diritti sono proprio la storicità e la relatività. Il diritto è connaturato al concetto di giusto, non si esaurisce nella legge, ma richiede un senso di giustizia, che come abbiamo cercato di dire precedentemente non è universale e atemporale, ma storicamente determinato vuoi tramite contratto vuoi tramite episteme. Inoltre esso non può esaurirsi solo nella forma (ovvero nella legge) o solo nella sostanza, ma esso è insieme forma (lex) e sostanza (ius). «Ma avremmo bisogno di una parola che racchiudesse in unità, comprensiva della forma-legge e della sostanza-diritto, i due lati della medaglia, una parola che non sia né legge né diritto, poiché ciascuna di esse ne indica soltanto una parte. Ma questa parola non esiste (…). Arrendiamoci al linguaggio comune e adottiamo diritto per indicare l’esperienza giuridica tutta intera»

giustizia apidge dirittoPer rafforzare la tesi suesposta si pensi al Tribunale di Norimberga. All’epoca in cui successero i crimini che venivano contestati e che divennero poi oggetto del processo non esisteva alcun trattato che li prevedeva come crimini punibili dalla legge. Quindi in base al principio Nullum Crimen, Nulla Poena Sine Lege Praevia il processo non si sarebbe potuto celebrare. Ma la legittimità del Tribunale non si fondava su alcuna legge, ma su un comune sentimento di giustizia, «… su ciò che era profondamente sentito in quel momento storico, come senso della giustizia e della legalità»

Ma ciò porta ad una conseguenza: dato che occorre sempre trovare il diritto nella legge, che ad esso è subordinata, l’opera giuridica principale la compie l’interprete, che nel riportare la legge nell’ambito del diritto la comprende e ne dà un significato coerente con il lato sostanziale del diritto. L’interprete diviene un «auctor», nel senso di soggetto che per mezzo dell’attività interpretativa porta alla luce il fenomeno giuridico. Da questo modo di intendere il diritto deriva anche che esso va studiato tenendo in considerazione proprio queste caratteristiche. Lo studio ha come fine quello di cogliere il senso delle norme giuridiche e dell’«esperienza giuridica tutta intera». Ove il diritto venisse inteso solo nella forma si potrebbe giungere ad una situazione paradossale: se dalla forma, ovvero dalla proposizione giuridica, non fosse possibile enucleare un senso, rintracciabile solo con un’analisi extra-testuale, allora l’attività interpretativa non sarebbe possibile proprio lì dove è necessaria, ovvero dove il testo non è chiaro.

Non si può studiare il diritto cercando di impossessarsi delle sole formule giuridiche. Comprendere il diritto non è opera di memoria, ma di intelletto. Arrivare a cogliere il senso e lo spirito delle norme è imparare a cogliere la sua ratio essendi, che, benché non coincidente con un principio di verità o di giustizia assoluto, è comunque presente nella norma e la giustifica. È l’interprete che dà vita alla norma, nel momento in cui la contestualizza, estraendone il senso, con un rimando delle vuote proposizioni giuridiche alla realtà delle cose, che danno significato alle parole. Il diritto serve a qualcosa, e nella sua funzione, ed al momento dell’applicazione,  trova anche la sua definizione.

A cosa serve quella norma? Qual è la sua funzione? Quale principio essa soddisfa ed attua, o eventualmente produce? Cosa succederebbe se questa legge non ci fosse? Cosa succederebbe se questa legge fosse diversa?

La ratio non è collegata alla forma, ma al contenuto. La creazione di una norma potrebbe essere dovuta ad eventi storici e ad un’idea di giustizia legata a quel momento (ad es. molte norme della Costituzione repubblicana del 1948 trovano la loro ragione negli eventi storici del suo più recente passato). O ancora, come dicevamo anche precedentemente, a nuovi bisogni sociali che necessitano di essere regolamentati.

Nessuno può dire quale elemento contenutistico sia prevalente nel diritto, se la storia, la volontà, i bisogni sociali ecc. Ma nello studio del diritto occorre porsi proprio questa domanda: perché la norma ha così statuito? Qual è la sua logica?

Perché è la logica che entra in campo quando si studia il diritto, logica non solo nel senso di deduzione, ma anche di induzione, abduzione ed argomentazione. Come dice, infatti, Gabriele Lolli, professore di logica matematica presso l’Università di Torino: «Venire a parlare di logica in casa di giuristi è come portare carbone a Newcastle, o peggio ancora entrare nella fossa dei leoni. Sono i giuristi i massimi interpreti, utilizzatori e produttori di ragionamenti e argomentazioni, insieme ai matematici».

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Se questa è la considerazione che i matematici hanno dei giuristi non c’è che da inorgoglirsi, ma occorrerebbe anche cercare di mantenere alta questa opinione. Il giurista non è un filosofo e non lo deve essere, ma non può ridursi ad essere un mero  tecnico con la giustificazione secondo cui le teorie e la cultura sono roba da metafisici. Nella relazione introduttiva del primo convegno degli amici e collaboratori del Mulino tenutasi a Bologna nel gennaio 1954, di cui uno dei redattori è stato il giuslavorista Gino Giugni, si legge: «La crisi della cultura dei giuristi (…) poiché essa è il segno di uno specialismo che diventa ognora più arido (come prova del resto la tendenza all’ermetismo del linguaggio) e, se si vuole, di una sempre crescente povertà spirituale; povertà, questa, di tecnici che vogliono essere solo tecnici e non anche uomini di cultura aperti ad altre e più ricche esperienze che non siano le loro raffinate e formali elaborazioni (p. 28)» (citato in G. PASCUZZI, Giuristi si diventa, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 114).

di Antonio De Filippo 

H. L. A. HART, Il concetto di diritto, Torino, Einaudi, 2002, p. 4;
E. KAUFMANN, Die Gleichheit vor dem Gesetz im Sinne des art. 109 der Reichsverfassung, Berlin-Leipzig, W. De Gruyter, 1927, p. 20, citato in  A. CARRINO (a cura di), Metodologia della scienza giuridica, Napoli, ESI, 1989, p. 208);
N. BOBBIO, L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990 , 2° edizione, p. 8;
H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Torino, Einaudi, 2000);
N. IRTI, Il salvagente della forma, Roma-Bari, Laterza, 2007);
J. RAWLS, Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 2010, 3° edizione, pp. 32-42, 126-193);
M. FOUCAULT, Le parole e le cose, BUR, 2006;
G. ZAGREBELSKY, La legge e la sua giustizia, Bologna, Il Mulino, 2008, pagg. 35-36;
M. R. SAULLE, Il senso della legalità nel processo di Norimberga, in A. TARANTINO e R. ROCCO (a cura di) Il Processo di Norimberga a cinquant’anni dalla sua celebrazione: atti del simposio internazionale, Lecce, 5-6-7 dicembre 1997, Milano, Giuffré, 1998, p. 35;
J. HRUSCHKA, La comprensione dei testi giuridici, ESI, 1983, p. 71;
A. FALZEA, Introduzione alle scienze giuridiche, I,  Il concetto di diritto, Milano, Giuffré, 1992, p. 243;
PASCUZZI, Giuristi si diventa, Bologna, Il Mulino, 2008;