Apidge. E ora parliamo anche di “Economia Politica”…

RICCHEZZA ED EQUA IMPOSIZIONE

ricchezza economia apidge

Dire che un reddito annuo di cento mila euro è medio (o alto, o basso) può essere una premessa che finisce per  far reputare vere conseguenze palesemente false. Affermare che un determinato reddito sia medio o alto potrebbe servire solo a strumentalizzare il discorso economico per fini prettamente di propaganda politica.

Importante non è tanto sapere se chi percepisce un reddito di 100 mila euro rientri nel ceto medio o ricco del paese, ma individuare i principi che sono alla base della ricchezza e le conseguenti regole (preferibilmente eque) che devono disciplinarne l’imposizione.

La ricchezza, come è noto, è, infatti, caratterizzata da due principi economici fondamentali: 1) il principio di decrescenza dell’utilità economica della ricchezza; 2) il principio dell’aumento più che proporzionale della capacità contributiva rispetto all’aumento del reddito. Una chiarificazione semantica appare d’obbligo. Il concetto di reddito e quello di ricchezza, da un punto di vista economico, indicano due realtà diverse. Il reddito è un flusso, cioè deve essere legato ad un periodo di tempo, non avendo alcun senso parlare di reddito senza indicare se trattasi di reddito mensile, annuale ecc. La ricchezza, al contrario, è uno stock, cioè indica un valore rilevabile in un dato momento (istante) di tempo, e non in un periodo di tempo. Ciò non toglie, però, che la ricchezza (stock) possa essere convertita in reddito (flusso) applicando alla ricchezza un determinato tasso di interesse annuale. Ciò permette di trasformare la ricchezza in reddito annuo. Ecco perché in tale scritto, anche per semplicità, i due termini saranno utilizzati senza alcuna distinzione, altresì perché qui l’intento è quello di dare un’idea (forse personale, ma fondata su principi economici) del concetto di equità e progressività dell’imposizione fiscale.

ricchezza economia apidgeChiarito ciò, si può ora ritornare ai due principi sopra esposti.

In base al primo principio l’utilità decresce man mano che la ricchezza si incrementa. Se si ha un reddito di 20.000 euro l’anno, allora ogni euro di quel reddito sarà importantissimo, dato che quei soldi basteranno a stento a pagare imposte, bollette, a fare la spesa al supermercato ecc (cioè per le spese necessarie). Quindi l’utilità di un euro in quel caso è elevata.

Man mano che il reddito cresce quell’euro rimane sì utile, ma non più essenziale. Così se si ha un reddito annuo di 100.000 euro, ben se ne potrà sacrificare uno, dato che certamente non avrà la stessa utilità economica che aveva nell’esempio fatto in precedenza. Se si continua verso l’alto, quell’euro finirà per perdere completamente la sua utilità. Così se si guadagna un milione di euro, la perdita di un singolo euro non impedirà certamente di avere uno stile di vita meno agiato. Anzi ben si potrebbe, senza che si arrechi alcun danno, “dare qualcosa in più” affinché il sacrificio sia almeno proporzionale a chi ha un reddito più basso.

ricchezza economia apidgeQuesto esempio fa comprendere anche il secondo principio, quello dell’aumento più che proporzionale (progressivo) della capacità contributiva rispetto all’aumento del reddito. Se appunto un soggetto ha un reddito di 1.000 e un altro soggetto ha un reddito di 10.000, se il primo dà 1 euro, chi ne guadagna 10.000 non dovrà darne 10 di euro (in tal caso l’imposta sarebbe proporzionale), ma qualcosa in più, per subire lo stesso sacrificio di utilità.  Quest’ultima decresce, infatti, in modo più che proporzionale rispetto all’aumento del reddito.

Graficamente il primo principio si potrebbe ben visualizzare con degli assi cartesiani in cui sull’asse delle ascisse si pone il reddito e sulle ordinate l’utilità. Facendo partire dal centro degli assi una curva con andamento prima verso l’alto (andamento crescente dell’utilità) e da un certo punto in poi decrescente (andamento decrescente dell’utilità al crescere del reddito), la curva assume un andamento complessivo  di tipo degressivo con forma concava verso il basso, volendo con ciò evidenziare che stessi incrementi  del reddito comportano incrementi dell’utilità (totale) via via più piccoli (appunto decrescenti), fino al punto in cui ogni altro incremento di reddito risulterà privo di qualsiasi utilità. La curva dell’utilità marginale (cioè l’ultima variazione di utilità apportata da ogni ulteriore incremento di reddito), invece, sarà completamente decrescente (ciò è osservabile anche analizzando la derivata prima della curva dell’utilità totale, evidenziando che la retta tangente alla curva ha pendenza decrescente, quindi la derivata seconda sarà minore di zero); quando essa interseca l’asse delle ascisse (è cioè pari a 0), l’utilità totale raggiunge il suo punto di massimo; quando, invece, l’utilità marginale diviene negativa (va cioè sotto l’asse delle ascisse), l’utilità totale diminuisce (questo perché l’utilità totale altro non è che la somma delle utilità marginali).

Il secondo principio, invece, si può rappresentare con il precedente grafico, ma sostituendo sull’asse delle ordinate la capacità contributiva e facendo partire dal centro degli assi una curva convessa verso l’asse delle ascisse (o concava verso l’alto). Ciò sta a significare che stessi incrementi di reddito sull’asse delle ascisse comportano (a causa dell’andamento della curva) incrementi sempre maggiori (progressivi) di capacità contributiva.

Allora, se si propone di far pagare di più a chi ha di più, senza alcun intento vendicativo o di invidia, non si può che avere ragione (sulla base, logicamente, dei due principi che si sono presi in considerazione).

ricchezza economia apidge

Non sembra abbia, invece, ragione (ma gioca con la psicologia umana) chi aumenta, o propone di aumentare, l’imposizione indiretta, che non è legata alla capacità contributiva di un soggetto, comportando un sacrificio maggiore da parte dei meno abbienti; così, aumentare le accise sulla benzina o altre imposte indirette vuol dire chiedere un sacrificio maggiore ai meno abbienti rispetto ai più abbienti.

E sembra inconsistente la tesi di chi afferma che anche nel caso dell’imposizione indiretta la progressività c’è, perché chi ha di più consuma di più e quindi paga di più; chi ha di più, infatti, non è detto che consumi di più, dato che anche la propensione individuale marginale al consumo decresce al crescere del reddito (è vero che la legge di Engel dice che al crescere del reddito aumentano i consumi di beni di lusso facendo decrescere il consumo dei soli beni necessari ed inferiori, ma nulla ci dice che tutti i percettori di redditi alti abbiano uno stile di vita elevato e “spendaccione”; così se si ha un reddito annuo di 100 mila euro, ben ci si potrebbe accontentare di un consumo pari a quello di chi ha un reddito di 20 mila euro, eliminando la tassazione “progressiva” sui consumi).

Inoltre, non sembra neppure fondata la critica basata sulla curva di Laffer, perché, anzi, questa curva è più in linea con quello che si diceva prima (aliquote più elevate su redditi più alti) che con il contrario.

La curva di Laffer, infatti, è graficamente una curva a campana posta nel primo quadrante di un piano cartesiano, sui cui assi sono poste le aliquote (asse delle ascisse) e le entrate tributarie (asse delle ordinate). La forma a campana significa che man mano che aumentano le aliquote (sull’asse delle ascisse) aumentano anche le entrate tributarie (sull’ asse delle ordinate), ma fino ad un certo punto massimo oltre il quale le entrate iniziano a decrescere. Questo perché, per dirla banalmente, nessuno sarebbe disposto a lavorare per poi dare tutto il proprio reddito allo Stato, così aumentando i casi di evasione ed elusione (favoriti da una imposizione elevata).

ricchezza economia apidgeEcco perché se l’imposizione si mantenesse su livelli bassi si potrebbero impiegare più intensamente il capitale e il lavoro, favorendo l’occupazione e, dunque, un incremento di percettori di reddito, che, quali contribuenti, andrebbero a compensare il minor gettito dovuto alla riduzione delle aliquote.

Questa «teoria scarabocchiata su un foglio di carta», come qualcuno l’ha definita, è priva di qualsiasi riscontro pratico (empirico e scientifico) che confermi la relazione tra diminuzione dell’ imposizione e maggior gettito fiscale. Ciò perché la curva è una semplificazione eccessiva della realtà economica. Nulla, infatti, permette di dedurre che una bassa tassazione (non associata ad altre politiche) eliminerebbe il fenomeno dell’evasione o dell’ elusione. Inoltre, quale dovrebbe essere il punto di massimo della curva in questione, cioè il massimo dell’aliquota media?

Ancora, la generalizzazione di Laffer induce a non far alcuna distinzione tra redditi bassi e redditi alti. Per i primi, infatti, una diminuzione della tassazione può indurre ad un aumento dei consumi, ma non certo per chi ha redditi che, secondo il principio delle utilità decrescenti, già sono “disutili”. In sostanza, su un reddito molto alto, un’elevata imposizione non limita comunque i consumi, a differenza dei redditi bassi. Quindi, in tal senso la curva può essere giusta se vista in linea con la decrescenza dell’utilità della ricchezza, ma non nel senso che le si vorrebbe dare.

ricchezza economia apidge

I sostenitori della curva di Laffer (cd. supply-side economics, ovvero economia dell’offerta) sono i fautori di un liberismo esasperato, in cui, come qualcuno già ha detto, la società civile non esiste, ma esiste solo l’individuo. In realtà, si dovrebbe dire che l’individuo (soprattutto quello ricco) è tale grazie alla società civile che glielo permette. L’unica cosa che occorre alla società civile è la giustizia sociale, e ciò si ottiene applicando il principio di uguaglianza, non inteso in senso egualitaristico (che comporterebbe un ingiusto livellamento tra gli individui), ma nel senso che gli è proprio: trattare situazioni uguali in modo uguale e situazioni diverse in modo diverso.

Dunque, in conclusione, l’imposizione progressiva, cioè con aliquota media (sempre minore dell’aliquota marginale) che aumenta al crescere del reddito imponibile, è un contributo all’equità e al benessere sociale; infatti, in un paese nel quale la curva di Lorenz rappresenta un indice di Gini che tende sempre più all’unità, non può esserci benessere sociale!

di Antonio De Filippo